NUMERO: 1836311903 | Lug - Dic 2012
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Racconti

PROSEGUO LE MIE STORIE

seguendo gli amici sui Forum mi domando se sia corretto il titolo dato a questi racconti sparsi nell’archivio di Naima e che parlano del Dinghy appeso al soffitto del mio garage.

Mi domando anche se non sia il caso di dare un filo conduttore a chi improvvidamente passa a leggere questi ultimi pezzi della storia.

Storie che non mi risolvo a concludere e che rinascono per sostituire lo zero accanto alla voce racconti della nostra rivista.

Adesso salto ad un’altra, nata alla fine dell’estate, quando ho interrotto la costruzione del Dighy.

Avrei voglia di aggiungere ancora delle foto: sono i miei amici nelle sere in cui si parlava della barca nella casa di Gianni, datemi qualche consiglio, sono pertinenti a sono troppo personali?

A volte vorrei sapere se fa ancora piacere quello che faccio.

Saluti

Franco

 
ODORI E RICORDI

A volte, nei i sentieri sterrati attraverso i campi, si sente l’odore del mare: così imprevisto e forte da supporre che dietro l’ultima fila di alberi, oltre il terrapieno, debba apparire la distesa azzurra senza fine.

Completando il guscio: termina anche la permanenza alla cascina, così una mattina d’ Aprile poco dopo l’alba sono tornato da Gianni per trasportare il Dinghy nel garage vicino alla casa dove abito, ormai provvisto di porte.

L’aria è pulita ed i contorni delle cose tagliano il cielo come cocci di vetro. Il sole sopra la bruma riflette di sbieco sull’erba e sulla terra umida; un trattore già al lavoro rivolta la terra, sopra a lui un nugolo di uccelli lo segue.

L’odore dei fossi raschiati, il trattore sperduto nei campi ed il confine azzurro dei monti si tramutano nella mente in immagini di mare.

Il guscio privo di ossatura interna, si contrae e si distende ad ogni scossone dell’auto. I chiodi di rame infissi nei fori sulle tavole del fasciame non sono ancora ribattuti ed io guido tra le impervità della strada con l’orecchio e l’animo tesi in ascolto: temendo che per quei sussulti una tavola possa allentarsi e spostarsi. Il viaggio si conclude senza

disastri e con l’aiuto di Eugenio deposito il dinghy sul pavimento del garage.

Della manciata di chiodi avuti in regalo da Giorgio restano alcuni esemplari solitari sigillati nel barattolo di confetture:

è merce questa che non si trova nei negozi qua attorno, occorre passare l’appennino, scendere fino al mare.

Così in quell’ Aprile sono partito , ho scavallato i monti e dopo boschi di castagni e declivi erbosi sono arrivato a Lavagna per ricongiungere i luoghi ai ricordi di un’altro cantiere.

 

 Cymba : un motosailer dall’alberatura generosa nato a  Varazze nella falegnameria degli Ottonello  parecchi anni prima. Adatto alla pesca a  traino con la canna, uno scafo blu avvitato su grosse costole di rovere e mogano che segna sempre, anche dopo infinite mani di stucco. Rimessato in un capannone all’Argentario, dopo aver scorrazzato in tutto il mediterraneo, per limiti di età dell’armatore che a ottant’ anni si era ritirato vicino alla figlia nei dintorni di San Remo. Gagliardamente ci ha raggiunti dopo un viaggio in auto e consegnata la barca, le attrezzature, le canne ed i mulinelli (che ancora conservo assieme ad una collezione di carte del mediterraneo, incollate su pergamena, su cui sono riportati a matita gli appunti delle navigazioni)  si è ritirato in una casetta a perpendicolo sulla costa, di fronte allo scoglio dell’Argentarola: sarebbe ripartito, in auto, per San Remo la mattina dopo.

Noi a bordo del Cymba, nei giorni successivi, facevamo rotta su Viareggio. Si terminava il trasferimento per Santo Stefano ormeggiati nel porto di Lavagna.

Passando per il piazzale ingombro di barche davanti ai capannoni di Sangermani si arriva sulla strada parallela alla ferrovia nascosta tra una fila di case che separano Lavagna dal mare. Parabordi e oggetti nautici in disordine sul marciapiede segnalano, allora come oggi, il  negozio dei Castagnino. Si accede all’interno per una vetrina impolverata, arredata con pezzi dimenticati di attrezzature da pesca e suppellettili.nel piccolo corridoio attendono pazienti gli avventori: in fila contro Il bancone coperto di limnoleum e incorniciato dal profilo di alluminio. Quegli spazi angusti sono il crocevia del mondo, appoggiati al bancone, in attesa del turno si discute si racconta e i Castagnino ascoltano e si informano sui fatti che accadono fuori.

 

Una sola luce al neon illumina il perenne convivio; di fronte al bancone uno scaffale suddiviso in cassette di ogni forma e taglia scompare nell’oscurità del soffitto, a terra: ancore, catene, scatole di marchingegni meccanici in attesa d’essere ritirati.

Per quanto mi sforzi a ricordare le fisionomie dei due fratelli riesco solo a focalizzare il camice blu di uno di loro spinto avanti dalla pancia e le mani grassottelle intente a sfogliare un registro dalle costole di cartone decorato di fiori, come quelli che si regalavano alla comunioni: su cui annotava gli acquisti dei carpentieri divisi per nome di barca.

 Il nome della mia non c’era e lui scherzava e rideva per il mio ritorno, come se il riapparire di un’avventore sancisse la loro perpetua esistenza. Sono uscito con due scatole di chiodi di due diverse lunghezze e le rondelle coniche da ribattere. 

La misura più corta l’ho presa per scaramanzia: essendo utile soltanto per cucire le tavole. La misura più lunga sarebbe servita per unire le ordinate al fasciame in ognuno di quegli spazzi lasciati durante la posa delle tavole.

Ettore ed il vecchio Pietro non ci sono più: c’eravamo conosciuti quando abbiamo messo a secco il Cymba e trascinatolo all’interno dei loro capannoni.

Pietro era il discendente diretto dei maestri d’ascia che fondarono i cantieri Sangermani, girava nei capannoni, attento alla roba e al lavoro dei carpentieri che ormai lo consideravano un vecchio patriarca benevolo.

Nel capannone più grande, sempre in penombra nonostante le grandi vetrate, con il soffittoin legno e tegole a vista, i carpentieri lavoravano sulle barche tra macchie di luce fatte da lampade isolate: legate alle incastellature. Nell’altro capannone scafi rimessati coperti di teli e polvere; a terra le rotaie, quasi scomparse tra la segatura, indirizzavano verso una gigantesca sega circolare usata tempo addietro per ridurre in tavole i tronchi.

Sul fondo del capannone grande un’impalcatura dall’aspetto medievale portava all’ufficio di Ettore, nipote di Pietro. Da l’alto si godeva la vista dei ponti in costruzione e l’andirivieni degli operai sulle impalcature infisse nel terrapieno attorno agli scafi. Ettore aveva sempre vestiti di color marrone; giacche di velluto, pantaloni di fustagna, golf, sempre di tonalità marrone, a volte chiari a volte scuri, anche le dita erano marroni: di nicotina.

Quando arrivavo lo trovavo sempre in mezzo ad un capanello di operai a spiegare, a mandare avanti il lavoro; schizzava incastri e sagome su pezzi di scafo o sulle pareti vicino alle barche. Mi trascinava dietro i suoi giri facendomi notare un’infinità di particolari in costruzione. Nasceva in quei tempi il “Rorolima”: un 15mt di Sciarelli che sarebbe terminato con lo scafo in mogano, lucido, verniciato, e noi a vedere la chiglia ed il dritto di prua in fasce di legno incollate e piegate a vapore. Fu in quei periodi che pensai seriamente di costruirmi una barca sufficientemente grande per viaggiare intorno al mondo. Ho dedicato quell’anno a sapere come fare, a chiedere consigli, disegni, valutare costi e luoghi dove realizzarla e poi assieme alle vicissitudini della vita:Il mondo reale, senza sogni, mi ha portato altrove.

Passarono ancora degli anni prima che sostituissi la Star con il Microciallanger ma, ormai il progetto era sfumato.

Adesso concepisco solo una barca in funzione della possibilità di navigare e mantenerla senza che metta a repentaglio le mie possibilità di sopravvivenza. 5,50mt 600Kg, carrello e un prato o una stalla dove rimessarla quando non posso andare, vetroresina perchè ha bisogno di meno manutenzione e basta uno sprazzo di sole per scappare e metterla in mare. Troppo lavoro ho fatto per tenere assieme la vecchia scialuppa a vela del “Formica”: glorioso veliero in disarmo nella darsena di Viareggio, concessami grazie all’interessamento del nonno.

Gli scafi in legno e tavole sono privilegi cari da mantenere o meglio da amare; se poi si vive lontani dal mare o dai laghi diventano pesanti come le loro zavorre.

M’accorgo di perdermi in fatti passati senza l’urgenza di completare il racconto: sono divagazioni che esprimono l’appagamento d’aver provato a scrivere di una cosa che mi piace. Accade così anche alla costruzione del dinghy che rallenta ogni giorno di più; l’euforia dell’inizio è entrata dentro di me e galleggia nella memoria assieme alle immagini dei giorni impiegati a costruire lo scafo e provoca un’ appagamento che sopisce lentamente gli stimoli necessari a proseguire.


 
                                                             UN’ALTRA STORIA   
                Aspettando di riprendere la costruzione del Dinghy
 

Ormai l’estate è finita, i campi rilasciano l’odore dell’ultimo fieno tagliato, il cielo ancora azzurro si carica di quell’umidità padana che in questi momenti di calura avvolge tutte le cose.

La strada per il lavoro è affollata di automobili ed in lontananza, dove si immaginano essere i monti, un colore violetto di smog delimita l’inizio della città; nella mente girano i pensieri, si dibattono senza soluzione come la pellicola sulla bobina di un film ormai finito: un rumore sordo accompagnato dal ticchettio dell’ultimo fotogramma che sbatte.

Batte così anche dentro di me l’idea di riprovarci ancora: un solo racconto è poco, sa di footing fatto per dimagrire, uno slancio che indurisce i muscoli e fa desistere dal continuare. Difficile dare a questi racconti l’ufficialità della scrittura: la cristallizzazione di un pensiero o di un’emozione che avviene su un foglio stampato fatta in età avanzata porta il rancore del tempo perso e la sensazione di vacuità; liberarsi da dogmi e pregiudizi, credere che almeno il cervello viva sempre gli stessi entusiasmi ignaro di qualsiasi sclerosi sembra impossibile.

Stessa sensazione che mi prende, quando lavoro attorno alla barca; mi perdo a pensare le manovre e all’equipaggio intento a mantenere la direzione: contrastando la spinta del vento con il peso del corpo, cazzando la scotta, forzando il boma con il vang e godo dell’immagine di mille gocce d’acqua che si alzano con violenza e ti colpiscono quando il mascone urta l’onda.

La barca, che ha preso inaspettatamente il posto del Dinghy è un fireball strappato ad una vecchiaia meritata e ormai in attesa di dissolversi nel nulla. Mania questa degli uomini di salvare ad ogni costo quello che naturalmente sta finendo, un accanimento terapeutico radicato dentro loro stessi lontano dai tentativi ontologici apparsi sui giornali a difesa della vita: è il talismano per la vita eterna, fatica inutile che ci comprende tutti appena avvertiamo l’odore del tempo passato.

Barca appena incollata da carteggiare, stuccare e verniciare che si è interposta con la promessa di essere pronta presto: all’inizio dell’estate. Complice una rinascita tardiva di sfida figlia dei ricordi di vecchie regate mai completamente sopiti. Nata a maggio sui tavoli abbandonati del bar ancora chiuso in riva al Fiume Magra: dopo aver conosciuto un tipo felice del suo nuovo Contender .

Contender contro Fireball.

Via lo spi si deve navigare uno contro uno; purtroppo passera tutta l’estate per recuperare lo scafo e a ricostruire il resto ormai distrutto di questo Fireball abbandonato nella cascina di amici scoperti un giorno “scorrendo” le pagine di Internet : la sfida è rimandata all’anno prossimo. (questo 2009, il Contender è ancora là e tra poco apparirà anche il tipo dell’anno scorso, a maggio ci rivedremo e vinca il migliore)

Di proposito preferisco il termine “scorrere”in sostituzione del più usato  “navigare” perché per esercitare questa nobile arte occorre qualcosa che messo in acqua galleggi e possa trasportarti da qualche parte, che io sappia i computer, anche i più moderni, se messi in acqua vanno a fondo e se poi li ripeschi non funzionano più.

 Tra le pagine del sito spunta il numero del cellulare di Giovanni, qualche tentativo ed esce dalla cornetta una voce schietta che non ha voglia di raccontare o farsi raccontare storie: cerca subito la tua partecipazione. Poco a poco nasce un sodalizio a senso unico: lui faticosamente mantiene in vita l’idea della vela come divulgazione di un’esperienza collettiva e introduzione all’uso delle barche, ed io qualche volta lo aiuto e partecipo alle riunioni di un gruppo di amici così disomogeneo nell’interesse nautico quanto pronto a divertirsi alla prima occasione offerta nei programmi di Giovanni; spero di incontrare chissà chi per avere più voglia di andare per mare.

Adesso andiamo ad Iseo.

 Ecco è bastato iniziare e la scrittura diventa più fluida, lascia i timori altrove, resta solo il dubbio se abbia senso scrivere una storia così, dopo tutto si scrive perché altri leggano quello che hai fatto; riunire in tante righe parole alte uguali con la stessa densità cromatica non ha molto significato dal punto di vista estetico: ha valore solo l’interesse per contenuto, ed il panico per il giudizio resta.

Le barche di Giovanni quando non navigano sono rimessate a Pioltello: comune in periferia di Milano espressione multietnica dell’umanità, dove gli Indiani giocano a Krichet nello stadio comunale assistendo alle partite in abiti tradizionali.

Venerdì 12 settembre data del nostro fine settimana sul lago d’Iseo,l’alba è più scura, l’umidità e al calura si sono trasformate in nubi lattiginose che coprono il cielo, nel pomeriggio inizia a piovere. La cascina dove sono rimessate le barche è un rudere circondato da alcune abitazioni:residuo dell’intero complesso, Giovanni ha lavorato ancora dopo l’ultimo sabato passato assieme perché questa sua regata sia possibile ed io nonostante abbia cercato di organizzarmi al meglio sono comunque arrivato in ritardo, appena il tempo di salutare gli altri che girano affaccendati, attaccare il carrello con le barche: ancora infilato tra le colonne di mattoni di un portico ormai inesistente; mettermi in colonna e attendere la partenza.

 C’è Paola: occhi di cristallo che restano impressi nella mente come il mare delle Eolie; poi Adriano che ha perso gli ultimi fine settimana a piantare rivetti e montare “riloga” sugli alberi (così chiama lui i carrelli dei boma); Laura con il sacro fuoco dell’insegnamento che prilla, Oriano e figli: scappati dal bar, dalla casa, dalle ferrovie italiane; Paolo perché la vela è uno sport più intelligente; Angelo e consorte che ci seguono perché la vela non è come l’winserf e lo sci.

Con l’aggiunta degli ultimi venuti che non conosco, la colonna diventa carovana e parte: un ponte, un pezzo di tangenziale, tutti uno dietro l’altro. L’autunno è ovunque, ogni accenno d’estate è solo un ricordo nella mente, la strada adesso attraversa i campi di granturco: vuoti, color ocra, rigati dal verde dei fossi; rotonde su rotonde e i monti si avvicinano: alti sopra la boscaglia che nasconde il lago. Prima di toccare le sponde passiamo per la reception del campeggio, prenotiamo boe e bungalow,il vento è forte, Mario che è arrivato in camper ed ha visto: prima il sole della mattina e dopo il temporale pomeridiano, misura l’intensità del vento, 18/22nodi; nel regolamento che tanto affannosamente quanto svogliatamente Laura e Giovanni cercano di redigere andrebbero aggiunte le condizioni meteo per navigare.

Un prato dove restano ancora alcune sedie a sdraio ed un pezzetto di sabbia messa li per fare castelli delimitano la sponda del lago costruita all’interno del campeggio, lo scivolo per le barche scende verso la riva tra il prato e la sabbia uscendo sull’acqua bassa attraverso l’apertura nel muretto di cinta: poco più alto di una persona; il bagnasciuga è un’ammasso d’alghe strappate dal maltempo.

Stacchiamo i carrelli dalle macchine: prima di sera vogliamo attrezzare le barche. Sono tutte derive un pò avanti negli anni

e scombinate tra loro: la più grande e un Flaying-Dutchman, vecchia signora nata dalla penna dell’olandese Conrad Glucher nel 1956 e colorata di giallo e celeste da Giovanni, scafo che con i suoi 6mt. di lunghezza scivola sull’acqua sollevando la bella prua arrotondata;  baglio grande: 1,70mt. di larghezza massima, pozzetto largo che termina a poppa nel ponte dove è attaccato il timone; a guardarla esprime il senso della potenza che i suoi 30mq. di vela le danno. Purtroppo la nostra signora ha un’albero più piccolo ed una vela arcobaleno nata da esigenze di economia e facilità di navigazione ma dicono sia ancora affascinante. Le più numerose sono i 4-70 (non mene vogliano gli addetti ma uso il trattino per facilitare la lettura ai neofiti), ne abbiamo tre, vantano ancora pronipoti tra le barche dell’ultima olimpiade ed un 4° posto che meritava medaglie nel doppio maschile. Carena a coppa che schizza fuori dall’acqua, francese come la marca del miglior champagne, Andrè Cornu l’ha costruita nel 1963: 4,70mt.e 20mq tra randa fiocco e spi di pura adrenalina, se non hai paura di scuffiare. Le nostre un pò vecchiotte daranno senz’altro grandi emozioni quando riusciremo a provarle. Uso questi condizionali perché le nostre barche arrivano da sentimenti viscerali: viste abbandonate da qualche parte e, come dicevo pocanzi, non ci si è rassegnati a tirar dritto; così Paola ha trovato il suo 4-70 sulla spiaggia di Marotta, vicino ad Ancona, mezza insabbiata, con le vele ancora montate. L’altra l’abbiamo prelevata all’idroscalo, piena d’acqua, abbandonata sulla banchina dei canottieri. Giovanni ha subito deciso che dovevano avere colori nuovi: per scaramanzia alla cattiva fine a cui erano destinati. Il terzo 4-70 non so da quale porto arrivi, è uno dei primi a far parte della flotta di “GIARA’S COUP” in Pioltello e come tale ha subito gli esperimenti di Giovanni che ha un’idea sua particolare degli spazi a bordo delle barche. Così è apparso a poppa un gavone per l’ancora e il gavone di prua è diventato un comodo punto di stivaggio per mille cose che pesano.

 Giovanni oltre ad essere la parte più fattiva della flotta è anche allenatore e corridore di corsa di fondo; un giorno, per scherzo vorrei andare ai suoi allenamenti con gli scarponi da roccia: così, per sentire cosa dice.

 Altra interpretazione nautica di Giovanni si vede nella rinascita di un vecchio Finn.

Una precisazione a questo punto è necessaria: le barche in italiano sono sostantivi femminili eppure qualche vota scappa il maschile e badate bene non è per comodità di nome ma assume proprio l’aspetto del sesso, chi pensa in questo modo vede proprio così: sono i più “matti” quelli che fanno del connubio uomo-barca un fatto biologico. La barca manifesta la sua vitalità assecondandoli all’orza, producendo rumori di strutture che si muovono sotto lo sforzo e diventano simili a frasi inneggiando a continuare o a risparmiare sforzi; pari ad un animale la sentono correre sull’onda: ascoltando il rumore dell’acqua contro lo scafo, trattengono il respiro e la incitano quando l’onda che arriva pare troppo grande per lei. Al suo interno ritrovano l’essenzialità delle cose della vita.

Cosi  le barche diventavo vecchi amici o dolci amanti: basta la desinenza finale a stabilire il sesso di questi strani esseri. Il Finn è maschio nel nome: diminutivo di Finlandia, terra di origine del suo progettista, Riciard Sarby, ma rimane maschio nelle strutture e nella austerità della conduzione, è una barca per singoli di carattere: 10 mtq di randa sono duri da governare, occorre anche del peso fisico per confrontarsi con essa. Ne sa qualcosa Elvstrom vincitore di tutto quello che si poteva vincere a vela  e che alla soglia dei 60 anni, con il suo catamarano, si permetteva un 4°posto alle olimpiadi assieme alla figlia; complice del cattivo piazzamento il vento forte che l’ha costretto al trapezio.Trapezio e timone sono stati troppo anche per lui; il primo In classifica così commentava il piazzamento: battere Elvstrom è senz’altro un fatto speciale ma lui ha 60 anni ed io 27.

Ne sanno qualcosa anche De Angelis: il barone di Luna Rossa e Rassel Cutts di Neuw Ziland che si erano già sfidati sui Finn.

Mancava l’albero ed è nato un nuovo armamento: randa e fiocco così il Finn diventa Zinn, come ama chiamarlo Giovanni, dicono che va comunque bene. Ultimo e senza grande storia negli alamari di famiglia un Flaying-Junior arrivato a Pioltello assieme al Finn; é la barca gregario per antonomasia, il progettista: Ulike Wan Essen ha gia progettato assieme a Conrad il più famoso F.D. e nello stesso anno decide di realizzare una barca per avvicinare i più giovani alla vela,questa idea condizionerà tutta la vita dei F.J.: tante regate, tante energie per poi andare su una barca diversa. Comunque anche il F.J. resta una barca piacevole da portare, con grinta da vendere.

 Altra prerogativa di questo gruppo è organizzare una logistica a terra di tutto rispetto, così dopo la fatica di mettere in condizione le barche di navigare ecco la tavolata della cena.

Sono arrivato ad un bivio,un intoppo che dovevo aspettarmi, la cena: nel comportamento collettivo del gruppo è l’aspetto sociale più significativo ed il bivio, letterario s’intende, è saltare ogni tentativo di racconto o ficcarcisi dentro. La consapevolezza di non riuscire a rendere realistica la vicenda e quindi evitarla cozzano con l’importanza nel mio modo di vivere un momento simile, fatto per liberare i propri sentimenti e vivere quegli degli altri: un microcosmo legato dal cibo, manifestazione comune di appartenenza ad un’unica specie.

Esistono criteri di espressione che hanno la stessa radice: la musica rincorre le percezioni umane attraverso i suoni, le pittura ricerca l’essenza delle cose attraverso la luce rimandata dal pittore all’osservatore nelle riflessioni della materia lasciata sulla tela; la scultura è plastica e tattile, immagini e volume si ripetono e si modificano nell’eterna lotta tra lo scultore ed il mondo. Il cibo, elemento naturale di cui ha bisogno l’essere vivente, diventa: con l’uso del cervello che ci è proprio, espressione del nostro essere e l’abbinamento degli aromi nell’uso voluto delle carini, delle verdure, delle spezie, delle bevande è sinapsi tra papille gustative e neuroni. Esprimersi attraverso la costruzione di una cosa da mangiare è cercare gli individui circostanti; come la scrittura, è confronto e giudizio.

Le lampade a gabbietta usate dai meccanici in officina sono parte del corredo necessario portato per la cena: attaccate alla grondaia dei bungalow rompono l’imbrunire della sera, sui tavoli verdi di plastica che arredano il portico sono stese tovaglie improvvisate, posati piatti di plastica e bicchieri ancorati con le forchette ed i coltelli per resistere al vento che tarda a diminuire.

 Alcuni arrivano dalla doccia in accappatoio, tardano a cambiarsi, quando si siedono la pasta ha gia sostituito le posate d’ancoraggio nei piatti. Mario e Anna arrivano dal camper, Adriano Oriano e gli altri sono già seduti, il vociare indistinto accompagna le posate che consumano pasta insalata formaggi e torte, la conta delle bottiglie di vino è ancora l’argomento di chiusura per ogni cena; adesso il convivio si divide negli argomenti più disparati, le persone si spostano, completano i convenevoli: sono arrivate con il treno Cristina e Valeria, L’una per restare un pi con se stessa, l’altra per uscire in barca e poi andare a correre una  gara imprecisata che interessa solo a lei e a Giovanni.

Angelo conduce la litania delle disapprovazioni: contro il tempo, la crisi economica, il disinteresse dei giovani, i fatti della storia che adesso ci perseguitano con le loro conseguenze. Sfuggire ad Angelo è difficile, a turno  ci caschiamo tutti: forniamo così ricette di statisti e sociologi, ripeschiamo nella memoria fatti inconfutabili. Laura inizia il ruolo di comandante: giubbini per tutti se il tempo resta così, certo commenta Giovanni, domani vediamo. Diventano argomento della serata anche le ciglia folte di Mario che assieme alla barba e alla voce pacata e compita: lo trasformano in un nostromo saggio d’altri tempi. Per qualche attimo Paolo, l’ultimo arrivato nella compagnia, riunisce gli interessi del gruppo: colpisce di lui la dedizione guari ascetica verso il suo lavoro: socio venditore  e imprenditore è arrivato a Pioltello con la  nuova sistemazione  di un capannone necessario ad ampliare la produzione. Paolo, quarantenne rampante, tifoso milanista è in cerca di compagnie che riempiano di spessore sportivo il tempo libero, una cosa che noi non possiamo dargli: gente in vacanza con figli  e amici al seguito, questo è il vero spirito del gruppo, le regate e le uscite in barca sono il pretesto per stare assieme, lontani dalla quotidianità della vita.

Scende la notte e la luna ci inganna con promesse di bel tempo, poi le nuvole e la pioggia si uniformano ai bollettini regionali.

Mannaggia, L’altro anno era caldo e senza vento, adesso ho portato solo magliette e costumi ed una sola cerata.

La mattina è fredda ed il vento soffia forte, le nuvole basse sovrastano di poco Mont’Isola; piccole onde si rompono sull’ammasso di alghe all’uscita del bagniasciuga. Le barche sono ormeggiate alle boe, per raggiugerle gli equipaggi usano canottini gialli, blu e verdi: di quelli comperati ai grandi magazzini. L’impresa di remare contro vento, un pò persi per il freddo iniziale riesce e tutti salgono a bordo. Con il figlio più grande di Oriamo parto anch’io: usiamo il F.J. che è rimasto a terra. Issate le vele lo spingiamo oltre il muro di alghe, l’acqua del lago sembra fredda ma ci si abitua subito, lui è il primo a salire: governa il timone, la barca inizia scarricciare, salgo rotolando sulla fiancata, ancora un pò di scarroccio poi la deriva va giù e si parte; abbiamo con noi la boa di virata da mettere nel punto più a largo. Il vento ci investe e iniziamo a correre: lasciamo una scia grande come quella di un motoscafo, la prua fende l’acqua alzando due baffi di schiuma, saltiamo letteralmente sopra le piccole onde. Le vele sventano e riprendono il vento in uno zig-zag euforico, un bordo a largo,l’altro verso terra un’altro ancora a largo siamo nel punto dove c’è da mollare la boa: un bidone di plastica colorato finisce in acqua seguito dalla sagola e dall’ancora; speriamo che sia sufficente la lunghezza della sagola per ancorare il bidone. Sulla barca senza bidone Claudo si porta avanti e migliora l’assetto, partiamo in una planata ,spruzzi d’acqua c’investono ad ogni onda; la ruggine che avevamo dentro dopo tanto tempo lontani dalle derive si è dissolta, ci divertiamo, solo un pò d’attenzione alle attrezzature e alle vele non troppo nuove: meglio risparmiare sforzi per evitare di rompere qualcosa. Il Vento arriva a raffiche, seguito da scrosci d’acqua, siamo in direzione degli altri che non hanno ancora messo a riva le vele, torniamo a largo verso la boa: ancora onde e scrosci d’acqua il lago si sta coprendo d’unico fronte di maltempo, attorno le cose sono inghiottite da una massa lattiginosa che avanza, gli scrosci d’acqua si diffondono dappertutto: grosse gocce, fitte, raggiungono anche gli altri; la navigazione da li a poco finisce, rientriamo. A terra i canotti sono ammassati sull’erba, il F.J. torna ad occupare il posto delle sdraio, la gente vaga con l’ombrello e rassetta  tende e verande in vista dell’inverno. La sera attrezziamo i tavoli negli spazi asciutti: dentro le stanze e sotto il porticato.

Rincorse dietro alle disapprovazioni di Angelo; erudizioni di regolamenti velici; gran premio di moto; conta delle ultime provviste rimaste; noia delle ragazzine arrivate assieme al gruppo di persone che non conoscevo: concludono la giornata.

Con Giovanni e Paola sono andato a controllare un’ultima volta le barche in acqua: abbiamo usato uno di quei canottini del supermercato; il vento soffia ancora e il canotto si spalma sulle onde come un canovaccio, alla fine si stappa la camera d’aria e torniamo allagati. Piove tutta la notte ed al mattino seguente non c’è attività di alcun genere; più tardi, al mitigare della pioggia inizia il brulicare dei campeggiatori: rimuvono i tavolati dalle verande insaccano le biciclette i tavoli e le sdraio, riempiono le macchine di oggetti da portare via. I componeti del gruppo, ormai tutti svegli girano sfaccendati: di uscire sul lago non si parla; sotto una pioggia leggiera riportiamo le barche a terra le smontiamo e prepariamo i carrelli per andare via.

A Pioltello non piove ed ironia della sorte, uno scampolo di sole ci asciuga; il gruppo, staccati i carrelli e spinti negli spazi lasciati vuoti alla partenza cerca di dileguarsi.

Giovanni conosce bene questi momenti e sfrutta il più possibile gli altri: per smontare e rimessare le cose a portata di mano.

Questo è il limite vero del gruppo: non esiste una capacità di condividere i tempi che intervallano le uscite, tutti scompaiono assorbiti dalle singole abitudini che diventano all’occorrenza necessità inderogabili; alle riunioni sempre più sporadiche partecipazioni: Giovanni, Oriano, qualche volta Laura e Valeria; partecipanti straordinari Gianni io Mario e Adriano. Gli altri seguono leggendo e commentando poco quello che è riportato su internet nel bolg. A primavera il risveglio e se qualcuno non ci sarà più forse qualcun’altro arriverà seguendo le indicazioni di amici o scoprendo su internet la loro esistenza. Un’esistenza che si perpetua da più di dieci anni ma che ormai sembra accusare lo scorrere del tempo.



10/03/2009 Franco Favilla
francofavilla@libero.it

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