NUMERO: 1836311903 | Lug - Dic 2012
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Racconti

acqua e legno

 

ACQUA E LENGO

 

 

Adesso che le tavole sono state tagliate e sagomate vanno piegate sulle forme dell’invaso.

La cascina di Gianni , oltre al corpo centrale con le case ed il portico comprende anche una stalla grande ed una piccola, vecchia come

le case. Queste due stalle sono messe ortogonalmente alla parte centrale, una sulla destra e l’altra sulla sinistra e costeggiano un

piccolo corso d’acqua sorgiva che quà nel Cremasco chiamano Roggia. L’acqua è limpida e bassa, il fondo ghiaioso ed è contornata da

sponde erbose ombreggiate da grosse piante  di rubinia. Si accede al livello dell’acqua grazie a scalini ricavati con la vanga sulla

sponda, a ridosso di un piccolo ponte. In quest’acqua ho immerso a più riprese le tavole di mogano per renderle duttili alla piega.

L’operazione di inumidire il legno favorendone la piegatura è una cosa che tutti conoscono ma soltanto pochi hanno visto eseguire, così

tra scetticismo e curiosità Gianni e Giulio hanno atteso i primi risultati.

Ormai le giornate sono corte davvero, il buio arriva con grande anticipo su le ore destinate al procedere dei lavori in cascina;

l’anticipazione della cena si tramuta, alla fine di ogni attività, in connubio di incontri conviviali e lente prosecuzioni nella costruzione della

barca. In cucina di Gianni si rovescia la polenta che Giuliano, altro abituè di queste parti, ha governato nel paiolo di rame, con un

piccolo remo di bratto.Il vapore e l’odore dei tordi a cuocere sulla stufa a legna dal piano di ghisa dove era conficcato il paiolo della

polenta, riempiono la stanza in penombra. Alla tavola: viva per i nostri maneggi e per la luce che la sovrasta, riprendono  i racconti ed i

commenti sui fatti della giornata:

--e l’albero dovè... al centro della barca?—un particolare che non avevo ancora definito con Gianni. E’ per colpa dei primi disegni fatti

alle scuole elementari che nasce l’idea comune di sistemare gli alberi delle vele al centro delle barche.

--no! È ritto sulla prua, a circa 30cm dopo l’inizio—

--E “figlio!!” (tipica esclamazione di Gianni) come fa ad andare, mettilo più al centro—

--Potrei ma occorre cambiare la forma della vela e poi mi piace così, come ha pensato quello che l’ha disegnata—

--ma l’aria che spinge......—

--L’aria non spinge soltanto, a volte tira......—.  Ho il pallino della storia in mano e non lo lascio scappare: altrimenti ci si perde in chissà

quali varianti sulle spinte del vento.

E’ l’occasine giusta per finire l’annoso discorso su come fanno a muoversi le barche a vela:

--senzaltro vi sara’ capitato di stendere il braccio fuori dal finestrino dell’automobile mentre va’...-- Magari non di recente, ma

sicuramente qualche volta.......—aggiungo vista l’epressione di disagio per ricordare e le fronti aggrottate.

—....e quando è disteso, con il palmo della mano rivolto verso il basso, ruotare la mano ed avvertire una spinta che che vuole

sollevarla...— accompagno le parole distendedo il braccio e ruotando lentamente la mano, fremandonmi ad un angolo della rotazione

dove in genere si percepisce la spinta, prima che tutto si trasformi in resistenza all’avanzamento.

—La spinta è data dalla diversa densità dell’aria che scorre sul dorso e sul palmo della mano. Sul dorso le particelle d’aria si addensano

formando un percorso curvilineo; all’interno di questo percorso: le particelle più vicine alla mano si trovano costrette a rarefarsi per

passare, mentre sul palmo l’aria scorre senza intoppi....-- Così dicendo disegno la sagoma della mano a prua di una piccola barca. ---

La rarefazione delle particelle ha prodotto una riduzione di pressione sulla parte superiore della mano che viane sospinta dall’aria che

passa sul palmo—. Giuliano, come al solito preferisce ascoltare che perdersi i lunghi commenti e precisa:

—si sposta ma non va avanti ! ---

--E’ qui che entra in gioco la forma dello scafo,la deriva , il timone...—ed aggiungo i particolari al disegno--...l’acqua scorrendo attorno

 alla deriva della barca spostata dalla spinta sulla vela...---

---“Figlio” ma la deriva non serve per contrappeso tra quello che è fuori dall’acqua e quello che è dentro?—

E’ Gianni che riemerge dalle varianti sulla forma della mano, le ali i profili e dal fatto che a far andare l’aereo è l’elica che tira—

--...si anche.... però manovrando il timone la deriva viene a trovarsi nella stessa condizione che abbiamo detto per la mano ed inizia a

esercitare una spinta che è più corretto chiamare portanza...--- ultimo pezzo aggiunto ,il timone

---.... l’arte del navigare stà nel manovrare la barca, spostando la vela con le scotte e indirizzando lo

scafo-deriva con il timone, finche le due spinte agiscano di comune accordo--.

Si torna a tordi , al vino buono, al caffe, alla grappa; mi viene da pensare che esistono anche, il baricentro, il parallelogramma delle

forze, il fatto che la bisettrice della barca taglia la retta della direzione di navigazione per un angolo pari all’angolo di portanza della

deriva; ma queste sono cose che stanno scritte sui libri, per la nostra serata è sufficente quello che abbiamo detto.

Altre volte in modo piu repentino e discreto passo dalla Roggia e senza fermarmi vado nella casa dov’è la barca; ed è come entrare in

un calendoscopio di fatti già vissuti: di esperienze trasmesse da uomini antici rinate nei legni che lentamente e con cautela piego sulle

sagome dello scafo. Cos’ha di diverso il mio procerede dal lavoro dei calafati della nave di Cheope o dai greci nelle navi raccontate da

Omero? Non sarà certo l’uso del potente fon elettrico in vece delle torce o delle lanterne ad olio a rendere queste pieghe diverse. Vivo

una trasfigurazione senza tempo, la manualità si riempie di gesti arcaici, rituali propiziatori di cui è piena la storia del mondo. I legni

 sono ancora gli stessi :L’olmo e la quercia. “fasciame cucito.....”  I gerci e i romani costruivano i gli scafi assiemando le tavole del

fasciame in modo da forarle entrambi e successivamente le cucivano con corde composte da trefoli che successivamente bloccavano

piantando cavicchi di tiglio nei fori. Probabilmente anche loro iniziavano la costruzione con lo scafo rovesciato ed una volta terminata

questa fase lo rovesciavano e legavano i madrierei alle tavole ed alla chiglia. Sorprendenti anche i numeri: nella stragrande

maggioranza dei casi le tavole erano 12 per parte, la distanza dei centri di ogni foro era di 9cm (10cm sul dinghy).

12 erano anche le tavole delle navi Vichinghe il fasciame decisamente sovrapposto come quello del dighy, la parte immersa era legata

e stagnata con i cavicchi, rendendo più elstico lo scafo sotto gli sforzi d’un mare inclemente come quello nordico (onde anche di 15

metri , correnti contrarie superiori ad 8 nodi, raffiche di vento di oltre 100km/h per scafi lunghi più di 15mt larghi 5 6mt dai corsi di

fasciame interi che salivano al cielo nella caratteristica prua sovastata dalla testa di drago).

La chiodatura in rame del dighy prende uso attorno al XVIII secolo ed è costituita da chiodi di sezione generalmente quadra che

vengono infissi tra le due tavole sovrapposte dopo aver praticato un foro di misura. Successivamente, servendosi di un bulino forato al

centro (capace di far passare il chiodo sporgente) con impronta conica, si spingeva ua rodella di rame sul chiodo tenuto fermo da una

 massa capace di assorbire il contracolpo del martello; la parte del chiodo sporgente veniva tagliata e ribattuta sopra la rondella sino a

formare una sorta di rivetto.

Giorgio m’ha fornito di uno strano attrezzo che ho duplicato più volte: è formato da due assicelle di legno elastico più lunghe della

larghezza di una tavola, separate da un doppio spessore di legno ricavato dagli scarti della stessa ed avvitati tutti assieme. Con questi

attrezzi è possibile tenere unite le tavole del fasciame semplicemete infilandole tra di esse; a prua ed a poppa le tavole vengono

avvitate con viti di ottone sul dritto e sullo specchio dopo essere state piallate e avviate con un piccolo gradino. Così prese queste

tavole ricurve iniziavo ad appoggiarle al centro, le fermavo con le mollette di Giorgio e proseguivo  piegandole e assestandole poco alla

 volta; fino a che le estremita ricurve, come una mezzaluna, sormontavano la tavola precedente. Occorrevano anche parecchi morsetti

per esere sicuri che non si muovessero quando praticavo i fori con il trapano e passavo al fissaggio con i chiodi di rame: due fori vicini

ed uno saltato per fissare in seguito l’ordinata.

Per tutto l’inverno, a periodi alterni, non sepre produttivi: ho bagnato, scaldato, piegato ed inchiodato le tavole e all’arrivo della

 primavera il guscio era pronto per essere voltato.

            
     
  


28/01/2009 Franco Favilla
francofavilla@libero.it

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