NUMERO: 1836311903 | Lug - Dic 2012
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Racconti

le dodici tavole

                          LE DODICI TAVOLE

 

Questo Natale è arrivato sotto forma di strenna un libro che parla di regate: probabilmente scovato presso una bancarella nel mucchio dei mai venduti. Racconta di mani doloranti per la fatica, di piedi sempre bagnati gonfiati dal freddo, di fatiche che restano nella mente. Scafi sotto sforzo che si rompono, delusioni abbandoni riprese e nuove fatiche, passaggi sull’equatore tra onde grigie senza fascino: un modo di amare il mare che biasimo, m’è difficile accettare tanta caparbietà sprecata per raggiungere una linea d’arrivo al di là dell’oceano. Una cosa però ho condiviso:

 

“…mi trasferisco a La Rochelle e comincio gli allenamenti. Entrare in sintonia con una nuova barca è come iniziare a conoscere una persona. Si deve imparare a capirla, ad interpretare i suoi comportamenti, i suoi silenzi. Esco ogni giorno con lei l’ascolto, le parlo, cerco la sua amicizia….”

 

Quando guardavo l’invaso e le sagome nella penombra della stanza, socchiudendo gli occhi per aumentare la profondità dell’immagine, riuscivo a seguire la forma dello scafo che sarebbe nato: vuoti e pieni , luci ed ombre erano già la barca. Terminato il lavoro di rifilatura sono passato ad irrigidire ulteriormente la struttura dell’invaso: fissando lo specchio di poppa alla spagliera della scala e il dritto di prua ad una sorta di croce avvitata sui gambi dell’invaso. Senza queste attenzioni le spinte prodotte dal fasciame in costruzione, avrebbero disassato le appendici e storto la chiglia.

Per pensare il fasciame di una barca si deve immaginare qualcosa che assomigli ad una scorza di arancio sbucciato longitudinalmente oppure alla parte verde di una fetta di anguria: larghe al centro e assottigliate nelle appendici; così per ricostruire la mia anguria prima ho ritagliato i disegni eseguiti all’inizio in scala naturale e poi li ho applicati  sulle sagome come indica il progetto:  “fasciame cucito di white-spruce (pino o piella a seconda di come si vuol chiamare) omogeneo scelto di mm8 di spessore finito, 12 corsi per parte mm16 di sovrapposizione. Tutto lo smusso sul corso inferiore……”

Servendomi delle suddivisioni già fatte ho fermato con le puntine il primo corso disegnato e mi sono accorgo che al centro deve essere un poco più largo ed a poppa resta quasi della stessa larghezza, con il nastro adesivo ed una striscia di carta ho compensato la differenza e ho tagliato verso prua dove deve essere più sottile. Allo stesso modo ho proseguito con i successivi disegni aggiungendo e togliendo e per riprodurre l’incurvatura ho usato assicelle che nel vuoto sorreggono la carta e ho rimandato a dopo le risposte a tutte le domande sugli errori fatti. Alla fine risulta una serie di disegni migliori e più convincenti dei precedenti ma non ho ancora la certezza di avere la soluzione giusta tra le mani. Ad assestare il colpo di grazia alle mie convinzioni di autodidatta è l’impossibilità di trovare il pino senza nodi o qualsiasi altro legno in vendita da cui ricavare semplicemente i 24 pezzi.

Raccolgo tutte le carte e risalgo il lago di Como verso la soluzione. Cernobbio, Argegno, Ossuccio sfilano via con le case le piazzette e loro campanili e i tetti: disegnati sopra l’azzurro dell’acqua più in basso. Villa Carlotta, il promontorio di Bellagio e il vecchio battello di linea diretto a Tremezzo  che raschia l’azzurro con onde di metallo: quanto tempo che non tornavo quassù !

Sono un elettronico votato all’elettrotecnica di cantiere e come tale ho lavorato a costruire nuovi impianti in fabbriche e grandi magazzini: Milano, Roma, La Sardegna, Torino ed un’infinità di altri posti per poi tornare al mare durante le ferie e nei fine settimana. Una volta però è successo che: per far andare meglio un rapporto di lavoro mio e dalla ditta che m’aveva sul libro paga, il nuovo cantiere si chiamasse “RIVA ACQUARAMA” si proprio come quel motoscafo di B.B. e di R.Vadim dai cuscini turchese e dallo scafo a vernice: icona di un’epoca. Così ho conosciuto Giorgio ed i suoi familiari, smontato ogni pezzo di metallo, salvate le viti, messo in scatoloni il timone a forma di volante color avorio, liberato dall’ossido i caratteristici comandi dell’invertitore e del gas: montati sotto al volante, simili alle leve del cambio di una macchina americana. Poi motori, cruscotto, tendalini, gomme, guide; tutti catalogati, fatti cromare, revisionare: per tornare nuovi. Giorgio e gli altri nel frattempo, sostituivano il fondo dello scafo con nuovi compensati, portavano a legno ogni pezzo e con cura da filatelici salvavano i pezzi per poi rimontarli lasciando emergere dal lavoro l’eleganza che il tempo lascia sulle belle cose.

Giorno dopo giorno sono diventato amico di questi “Laghè” che costruiscono anche barche nuove dalle forme classiche e meravigliosi dinghy.

Dalla via principale che sale tortuosa sotto il picco del monte di Termezzo si accede al loro mondo passando per un acciottolato seminascosto da contrafforti di pietra che sorreggono gli orti vicini e un grosso cancello in ferro battuto. Uno slargo, tappezzato di ciuffi d’erba, resti di carpenteria e scafi dal destino incerto separa il cancello da due variopinte costruzioni fatte di assi, hanno dimensioni modeste, con grandi porte in legno e costituiscono “i capannoni della falegnameria” ; dove il padre di Giorgio ha lavorato da piccolo con suo padre e poi ha proseguito mantenedo la famiglia, finchè i figli, diventati grandi e terminate le scuole, si sono uniti  a lui nell’attività.

Le voci e i rumori delle macchine provenienti dai capannoni animano il piazzale deserto e manifestano la loro presenza, varcando il portoncino appaiono le cose di sempre: capriate polverose invase da ferramenta d’alberi, boma, cavalletti. Appoggiate alle pareti: mezze sagome, in apparente confusione, assieme a tavole di fasciame, scarti e listelli squadrati. Il fondo in terra battuta bordeggia la base di cemento della pialla e termina contro lo scalino della piccola porta a vetri  aperta sull’ufficio magazzino dove c’è il telefono che ha annunciato il mio imminente arrivo.

 Non ci siamo ancora visti: lo scafo di un “catboat” in costruzione ci separa. Giorgio mette la tesa fuori dai bagli, oltre la carena lucida di vernice e con voce forte, da montanaro, mi indica la scaletta per salire a bordo. Lo scafo in mogano è costruito in modo classico con le ordinate in lamellare di acacia, i correnti, le serrette,  i madrieri e il paramezzale sovrastato dalla poderosa cassa della deriva a mezzaluna in metallo; la coperta e la cabina sono appena accennate nella forma dei bagli. Mi lascia ammirare compiaciuto: il nostro rapporto, nato in quei tempi, non si è appannato con il passare delle stagioni.

Ho cercato di anticipare cosa stavo facendo:

 -Che fai… mi voi fare concorrenza.. vieni su, vediamo, ciao ho da fare…a presto-. Così con il suo linguaggio scarno, tipico della gente di quei posti, che riuscirei a ricordare a distanza di secoli acconsentiva di mettersi a mia disposizione per una richiesta inusuale: quasi un fatto di famiglia. Non so ancora quale disponibilità abbia in mente di offrirmi quando repentinamente interrompe il lavoro e mi porta dietro i capannoni dove sotto alcune lamiere riposano a stagionare grosse tavole di mogano spesse anche 5cm con i resti della corteccia attaccati ai bordi.

Sono bastati pochi attimi per definire il da farsi, la spesa e l’idea di abbandonare il pino rivolgendomi al più nobile mogano: -prendi li… questa, si…. alziamola e andiamo dentro-.

Per realizzare le tavole usiamo i modelli di compensato che utilizzano nei loro dinghy e con un certo compiacimento ho modo di vedere la forte somiglianza con i miei disegni ( in altra sede li ho poi sovrapposti e ho visto quanto è stato buono il lavoro di taglia cuci ed incolla: ancora desso conservo la bella copia di quei disegni).

Dopo aver reso piano un lato, si suddivide la grossa tavola in parti sufficientemente larghe da contente il disegno ricurvo (in realtà occorrono tre grosse tavole) segati con la circolare, i 12 pezzi passano nella pialla a spessore 25mm di finito. A questo punto trasportiamo il disegno dei modelli di compensato e con una sega a nastro pronipote della bindella di Gianni tagliamo i corsi del fasciame. Alla fine, ancora con la grossa lama della circolare dividiamo a metà i 12 pezzi ricurvi ottenendo due coppie simmetriche dello stesso corso di fasciame: uno per bordo. Portati a spessore giusto di 8mm si legano con quella pellicola simile alla plastica per alimenti assieme alle traverse del portapacchi.

E’ quasi notte quando lascio il lago e mentre viaggio ricostruisco gli attimi della giornata, traendo la più ovvia delle considerazioni: senza l’aiuto di Giorgio la costruzione sarebbe rimasta impantanata a lungo.


 

   



17/01/2009 Franco Favilla
francofavilla@libero.it

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