NUMERO: 1836311903 | Lug - Dic 2012
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Racconti

il dinghy, ovvero farsi la barca


IL DINGHY.

OVVERO FARSI LA BARCA

 

 

 

Capita a tutti quelli che vanno per mare o sui laghi di volersi fare una barca. Il  “ fare “ questa volta assume una componente fisica di partecipazione alle scelta delle forme, delle dimensioni e si spinge fino alla realizzazione ed al varo.

Lasciando perdere quelli che riescono ad uscire indenni da queste idee e continuano ad usare quello che anno o si limitano a scegliere ciò che offre il mercato condizionati solo dalla grandezza delle proprie tasche. Restano ancora due tipologie che per sommi capi comprendono le infinite personalizzazioni nate nelle menti dei futuri possessori di una nuova barca. I personaggi di una di queste categorie girano per anni nei padiglioni delle fiere nautiche, raccolgono tutti i depliant, conoscono gli artigiani che  espongono e che vanno a trovare ogni anno; poi un giorno questi individui passano dai saloni al cantiere ed iniziano la loro avventura. All’altra categoria appartengono coloro che misurano quanto è grande il loro garage o il salotto e con queste misure scelgono il tipo di barca. Io appartengo a questa categoria.

La barca che ho deciso di fare non sarà l’unica che avrò a disposizione: esiste già il Microchallange per uscire in mare,

ma resta comunque una barca speciale.

La costruzione sarà un viaggio dove rivivono attimi lontani dell’infanzia e dell’adolescenza, quando a Viareggio esistevano baracche di legno colorate di pittura verde simile alle antivegetative degli scafi. Avevano le  porte segnate da successivi allargamenti necessari per far passare scafi sempre più ingombranti ed erano affiancate da piccole abitazioni delimitate lungo la strada da pini bassi, fiancheggiate da orti: dove tra piante di vite con le foglie sempre un po’ gialle stavano file di panni stesi. Varcando con i ricordi quelle porte sento il fondo in terra battuta e nella penombra della memoria escono: forme di  banchi con grandi morse di legno e le scasse per fermare le tavole da piallare; marmotte, scalpelli, magli da calafato, asce, sponderuole, pialle grandi: alte come un bambino; sagome di timoni e centine rimessate lungo le pareti, appese con cavicchi e chiodi strato su strato in un grande affresco che racconta lavori passati. In alto sotto il soffitto i remi sono infilati assieme alle assi lunghe nelle capriate a forma di triangolo isoscele. Un mondo ormai scomparso, modificato dal giusto benessere che rende più facile la vita. Le barche che si facevano in quelle baracche erano gozzi da lavoro con costole preistoriche sanguinanti di minio o scafi più leggeri dal fasciame a clinker le cui tavole venivano piegate a caldo su sagome conficcate nella terra battuta a mo di scalo rovesciato. I legni che si usavano erano l’olmo la quercia il rovere e il fasciame era in pino marittimo che da noi si chiama “Piella”; di rado venivano impiegati il mogano ed il teak.

Compagna di questa navigazione psichedelica è una barca a vela di 12 piedi (circa 4metri) nata dalla mente di Gorge Cockshott (Lancashire-Inghilterra) nel 1913 per partecipare ad un concorso indetto dalla “Boat Racing Association” in cera di un dinghy 12 piedi fuori tutto da utilizzare nelle regate di circolo.

La definizione dinghy in per i Britannici e gli Americani identificava un barchino di supporto ai grandi yacht che nascevano: era  costruito con fasciame sovrapposto e cucito con chiodi di rame ribattuti (clinker) caratterizzato da buona stabilita, di struttura leggera per essere issato facilmente a bordo.

Il progetto ebbe subito grande successo, provvisto di deriva armato con una randa a gunter (infierita sul picco per il quarto dell’estensione e issata su un albero corto) di 100 piedi q. (circa 9,30mq) si prestava ad essere utilizzato sia per regata che canottaggio (è dotato di scalmiera poggia piedi e remi). Venne prescelto nel 1920 dal Comitato Olimpico Internazionale come imbarcazione per singolo alle olimpiadi di Ostenda. Nel 1935 nacque la classe a restrizione dove vennero definite misure e pesi e divenne “Dinghy 12 piedi stazza internazionale”: come sta scritto sul regolamento di stazza regalatomi da un amico assieme ai disegni dei piani di costruzione datati 1951: ricordi del padre ormai scomparso che li costruiva in Liguria.

 

Inizia la costruzione

Il garage che avevo pensato come cantiere è ancora privo di porta e siamo all’inizio della brutta stagione,ho impiegato  l’attesa ricavando le sagome di cartone in grandezza naturale delle parti disegnate in scala 1 a 10 sui piani di costruzione: ingialliti e riparati con il nastro da disegnatore dove ho ripassato tutte le righe azzurrine della copia eliografica appoggiandomi alla finestra,così sono entrato  perfettamente in simbiosi con la calligrafia di questo disegnatore che non conosco: seguo e assimilo la sua forma espressiva: i suoi aggettivi, i sui punti le sue virgole, le linee d’acqua che gli Anglosassoni chiamano boot e che se provi a tradurli con il vocabolario di scuola ti ritrovi in una tineria del Lancashire.

La cosa più affascinate del progetto di una barca sono le linee d’acqua e le tavole dove sono riportate le coordinate numeriche dei  punti di intersezione tra queste e le linee delle ordinate. Lo sviluppo di queste linee: necessario per poter disegnare le 12 tavole del fasciame, ti svela l’invio della prua, l’allargarsi dello scafo alla prima ordinata; dove è situato il baglio più grande, quanto è distante dal baricentro statico; intuisci la forma d’onda che ogni scafo produce avanzando nell’acqua e che per gli scafi a vela dislocanti rappresenta, con la somma dei suoi semiperiodi (di vuoto e di pieno), la velocità teorica massima raggiungibile. Verso poppa le  linee ti suggeriscono quanta spinta danno le forme nella riduzione del beccheggio e immagini dalle uscita sulla poppa la forma d’onda ideale che non rallenta la barca. Esistono poi due linee diagonali segnate sullo specchio delle ordinate da cui può ricavare le posizioni dinamiche dello scafo e soffermarti a vedere lo sviluppo dello spazio bagnato corrispondente ad esse. Ormai è  inutile insistere con il geometra che gestisce le case dove abito, meglio trovare un altro posto per iniziare. Chiedo ad un amico di ospitarmi per l’inverno: Gianni alleva mucche nel paese vicino al mio e la sua cascina è una successione di quattro vecchie abitazioni unite da un porticato, quando ho iniziato la barca viveva ancora da solo: meta di conoscenti e amici che tra i vecchi trattori smontati e oche e galline avevano svezzato li i propri figli. Nonostante la vita che conduce: legato alla terra e alla sue cose, Gianni ha interesse per ogni avvenimento che capita oltre i suoi campi e gli amici sono i portatori di tutte le novità piccole e grandi del mondo. Ha una passione maniacale per le costruzioni di ogni genere e quando ho iniziato a raccontare della barca che avevo in mente di costruire, ho dovuto aggiungere un’infinità di altri particolari: un’inesauribile sequenza di pezzi e di storie che bicchiere dopo bicchiere ci ha condotti fino a sera. Momentaneamente il piccolo cantiere si è spostato nella cascina, Gianni ha concesso l’ultima di quelle antiche abitazioni fatte di tre stanze, cucina in basso e due stanze superiori raggiungibili tramite una scala di legno. Condivido lo spazio con un’altro abituale amico che da una mano ai lavori nelle stalle  e nei campi: Giulio pensionato in fuga dalle patine di felpa della moglie, arriva e mentre si cambia guarda i progressi dei lavori.

 

 

 

Dritto di prua Chiglia Specchio di Poppa

 

Il dritto di prua è tutt’altro che dritto! Scende verso la chiglia

Appena inclinato per  terminare con una curva che il più delle volte si realizza componendolo in due pezzi.

Ancora quando ero ragazzo c’era chi riusciva a farlo in un pezzo solo di legno ricurvo.

Quando mio padre andava a pescare con il giacchio, lo seguivo in bicicletta: attraversavamo il viale confinato tra due file di tigli, giganti per l’età, che da Viareggio va verso Torre del Lago e ci immergevamo nella pineta percorrendo certi sentieri disegnati da terra finissima, chiara, sul letto di aghi marrone. In  vista dello stadio, ripiegavamo verso il mare: tra il campo di tiro a volo e i resti dalle forme egizie del Valipedio (vecchio poligono di tiro costruito nel ventennio). Lasciata la pineta alle spalle, nel cielo azzurro di ottobre, raggiungevamo un acciottolato largo che marcava l’inizio delle spiagge: embrione di un viale che vedrà la realizzazione definitiva intorno agli anni 70.

Sulla destra una strada di sabbia battuta dirigeva alla darsena più remota del porto. Proseguivamo uno dietro l’altro tra vecchi stabilimenti balneari, ormai deserti, dipinti grossolanamente di blu, bianco e rosso; ed il muro di cinta dei nuovi cantieri navali Benetti.

All’inizio della strada una falegnameria immersa nelle dune e nei rovi esponeva un repertorio di tavole ricurve appoggiate al muro di cinta. Quelli della segheria si dovevano essersi distinti tra tanti per la capacità di trovare tronchi ritorti da ridurre in tavole, spesse anche 5cm che poi lasciavano stagionare ad uso degli ultimi carpentieri: sacerdoti di una tradizione millenaria in rapida estinzione. Tavole che come spiegava mio padre finivano nella realizzazione di prue,  calcagni,  monaci: infisse nelle chiglie e nei madrieri, come madre natura le aveva fatte, seguendo le forme dello scafo.

--Il giacchio ha trefoli di canapa più sottili della corda di questo salamino: è una rete conica con maglie a forma di rombo--: non poteva sfuggire a Gianni il termine inusuale che avevo pronunciato.

--Nella parte alta le maglie sono più grandi e terminano con un capo intrecciato che ti resta in mano e serve per il recupero—: la cosa si fa interessante e tra le fette di salame della merenda sotto il portico e i bicchieri di vino che stemperano la sera, si aggiungono i ricordi: di quanto mio padre la stendeva ad asciugare, calandola dal terrazzo sino al giardino e la rete assomigliava a quei coprinsetti indiani che si vedono avvolgere i letti nei film.

--Sulla base ha una balsa di canapa più spessa guarnita con piccoli piombi, legata ad intervalli regolari alle maglie con trefoli corti che tirando la rete formano la borsa dove restano imbrogliati i pesci.—

Arrivati sull’arenile mio padre toglieva il giacchio dalla sacca azzurra, scolorita da infiniti bagni e a torso nudo, con i calzoni tirati su fin sopra il ginocchio, si disponeva una parte della rete sulle spalle: come un tabarro; ordinava l’altra parte in ciocche stese dal peso dei piombi, in modo che non si sovrapponessero ed entrava in acqua. Le onde di sabbia del fondo si scomponevano in nugoli nebbiosi tra i suoi piedi quando: con un passo di danza si voltava verso di me facendo oscillare le ciocche che poi lanciava a mezz’aria roteando come un atleta nel disco olimpico di tiro del martello; La rete si stendeva nell’aria simile ad un telo mosso dal vento ed entrava in acqua.

--Si pescavano boghe,piccole sogliole, tracine dai pungiglioni pericolosi,triglie; una volta anche un ragno (branzino)—Gianni ha recuperato una tavola che non era mai riuscito ad impiegare, è dello spessore giusto e la sagoma di cartone è molto simile.

La chiglia è ricavata da una tavola di mogano comperata da Bellotti: famoso rivenditore di legnami alle porte della Brianza; sui disegni il nostro sconosciuto amico riporta queste indicazioni ”in legno di olmo omogeneo o rovere o mogano, spessore al centro, all’apertura per la chiglia mobile, mm51 rastremata a 45 in avanti e addietro mm38” Scorrendo i disegni della sezione longitudinale è possibile, dopo aver fissato sulla tavola una sagola tra i due estremi in rappresentanza della linea di fede che divide la chiglia in superiore ed inferiore, riportare le misure della sella interna dove sarà avvitato ed incollato il paramezzale: sporgente oltre lo spessore della chiglia, largo 102mm e spesso 20mm che verso prua finisce sagomato secondo la piega del fasciame. La parte inferiore arriva a poppa dove verrà tagliata in seguito a filo dello specchio e segue una curvatura “avviata” alle forme della ruota di prua (la grande curva del dritto). Le misure dei disegni riportano le mete di distanza ad ogni cambiamento di forma e dividono il pezzo in otto parti, la tavola così risulta ben più larga del pezzo finito e dimostra quanto siano state utili quelle sagome,  nell’acquisto dei legni, fatte in attesa che il geometra finisse di mettere la porta al garage. Adesso occorre una bindella (sega a nastro caratterizzata dalle due grandi ruote che indirizzano e trascinano il nastro di acciaio dentato che taglia). Nella legnaia di Gianni ce n’è una: ha la struttura in fusione di ghisa con i piedi a forma di zampe d’animale, le due ruote che governano il nastro della sega sono a raggi attaccati con la forgia, sui pignoni due vasetti di vetro contengono il grasso che viene spinto dentro avvitando il tappo. I coperchi delle ruote sono forati da sagome artistiche fine secolo, una grossa cinghia piatta e larga con la dentiera di chiusura in ottone collega i rotismi alla presa di forza di un vecchio trattore. E’ stato inutile regolare la cassetta di scorrimento del nastro: avvicinando le rotelle  e stringendo la pinza rifoderata di cuoio, il nastro si sposta sulle ruote che oscillano nelle bronzine; la forma finale ha un contorno ondulato che debbo sistemare con la pialla e l’olio di gomiti. Nei giorni successivi cerco un falegname che con la mortasa: una specie di fresa assomigliante ad una punta di trapano che fuoriesce sul lato di quelle pialle moderne, gli chiedo di aprire il passaggio della deriva mobile. Lo specchio di poppa è un bella tavola di mogano che ho già deciso di passare con la vernice trasparente “di sezione quadra mm19 avvitata al dritto di poppa, scanalata per un remo di bratto e sagomata al coronamento” la faccio tagliare dal falegname che ho trovato; il disegno dello specchio è riprodotto a metà in scala 1:1, nella stessa scala sono  anche riprodotte le sagome del dritto e del calcagno che finiranno con l’essere fatti con gli sfrisi della tavola usata per la realizzazione della prua.

Composti ed incollati con la moderna resina della Veneziani e tenuti assieme da una infinità di morsetti di ferro hanno l’aspetto dei resti del grosso pesce che galleggia alla fine della romanzo “IL VECCHIO ED IL MARE”.

 

 

Cassa della deriva e scalo rovesciato

 

 

Complice un clima veramente inusuale per le nostre zone, alla fine di ottobre, fatto di giornate dall’aria frizzante, azzurre, dove il sole disegna nitidi i contorni delle case degli alberi e dei monti ancora bruni: non mi sono ancora  deciso a traslocare completamente nella casa di Gianni. La lisca del dinghy è nel mio garage senza porta, invaso dai trucioli usciti dalla pialla quando ho rifilato il contorno ondulato della chiglia e avviato le forme della prua, ma adesso è il momento di spostarsi: lo esigono le lavorazioni imminenti.

Nella stanza a piano terra della casa abbiamo spostato contro un angolo il vecchio mobile da sala con la credenza guarnita da specchietti rettangolari diventato ripostiglio di sementi e concimi, traslocato altrove il grosso divano che Giulio usa d’estate per i pisolini, tolti i sacchi di pane secco per i polli; misurata con scrupolo la porta di accesso ad una sola anta,chiusa in basso da pannelli di legno e superiormente suddivisa in quattro vetri separati da una cornice a croce: sarebbe imperdonabile scoprire alla fine della costruzione di non riuscire a portar fuori lo scafo, ne Gianni mi permetterebbe di allargare l’uscita.

La cassa della deriva sale dal paramezzale fin sopra la linea di galleggiamento ai bordi dell’apertura fatta con la mortasa del falegname. In calce sui disegni è riportato: “Cassa di deriva mobile Apertura per la lamiera di 13mm in luce, fianchi di kauri o pino dell’oregon spessore 19mm. Piedritti di rovere o teak, coronamento di kauri pino mogano o teak.”

“Perno per la deriva di lamiera = bullone da 3/8 - 9,5mm con bussola di 5/8 – 15,9mm ribadito con due rondelle ai lati della cassa”

“Sopra chiglia” ovvero la chiusura della cassa verso prua “olmo di roccia o picth-pine 102x19mm sagomata al centro come la chiglia e fissata con viti in ottone del n°12 distanza delle viti 100mm” un laconico asterisco che quasi si confonde con le macchie della carta indica la ripetizione delle note per la chiusura verso poppa.

Nella casa di Gianni la prima cosa da fare è la realizzazione di uno scalo. Chiamare scalo questo trespolo di legno che tiene assieme le sagome su cui piegare le tavole del fasciame e inchiodarle tra loro mi sembra eccessivo; anche se i carpentieri chiamavano appunto scali tutte quelle strutture fisse che servono a sostenere la costruzione degli scafi.

Lo scalo che mi torna alla mente è ben altra cosa: è quello dove lavorava mio nonno palombaro.

Ci sono ricordi  di fatti e cose che galleggiano, si dissolvono e riappaiono dentro di noi come bolle di sapone e non si riesce a dare loro un inizio o una conclusione, così accade per il gozzo di mio nonno che sospinto a remi si muove lentamente nella darsena vecchia e nella mente: rievocato dalla necessità di rendere partecipi gli altri di una propria emozione.

E’ un’imbarcazione modesta, priva di motore  manovrata dal compare fidato del nonno: una vita passata assieme comunicando  attraverso una cordella che il nonno si porta appresso, fatta di piccoli strappi e vibrazioni capaci di trasmettere ogni bisogno come un telegrafo marino.

Al centro dello scafo, con il bottazzo pitturato del nero

dei rimorchiatori e di verde scuro sul fasciame, troneggia la cassa di legno lucida: verniciata a coppale, dove è racchiusa la pompa dell’aria. Ai lati della cassa due grandi ruote di ottone, ormai scure per il salino, con le impugnature rivestite di legno, servono ad imprimere il moto alla pompa.

Seduto sull’ultima passerella per il carico e lo scarico che dalla riva porta verso la parte più fonda della darsena, vicino al piano inclinato dello scalo Picchiotti: dove due grandi travi di legno tenute allineate da un’infinità di traversi si inabissano simili ad una ferrovia di Verne, guardo l’ingombrante sagoma di gomma in cui è racchiuso il nonno e la sfera di ottone con gli oblò collegata al tubo della pompa. Scende dalla scaletta di ferro facendo inclinare tutta la barca, mentre l’altro iniziata a girare lentamente le ruote, resta a galleggiare vicino al gozzo; adesso si passano gli attrezzi poi dalla tuta di gomma escono le bolle d’aria e il nonno scende verso il fondo a preparare lo scalo per il varo: uno degli ultimi che verranno fatti da questo cantiere.

L’acqua scura non permette di vedere il fondo e le bolle che affiorano si uniscono a quelle della memoria svanendo.

Non potendo di certo piantare nel pavimento della casa i sostegni per le sagome del dinghy, mi sono procurato dei legni al Bircocenter in abete 100mmx100mm di sezione abbastanza lunghi per disporre i vari pezzi, sostenuti da due grossi piedi che ho trovato più comodo comperare già fatti.

Tra le mezze sagome in scala 1:1 dei disegni ho ricavato: in multistrato da 20mm, le sagome principali che una volta fissate con la parte ricurva verso l’alto hanno accolto la chiglia formando l’idea completa dello scafo. Prima di iniziare a realizzare il fasciame occorre smussare i bordi delle sagome; servendomi di una assicella lunga quanto lo scafo traguardo gli spigoli di ogni sagoma in modo da togliere tutti gli spazi  vuoti degli angoli retti ed realizzare i piani su cui appoggiare le tavole.

Suddivisa ogni sagoma in 12 segmenti inizio a fissare l’assicella con dei chiodi e con raspa e pialletto asporto gli spigoli poi la sposto cerco e spiano le gobbe e passo alla segmento successivo. Occorrono un paio di sere per completare tutto lo scalo.

 

LE DODICI TAVOLE

 

Questo Natale è arrivato sotto forma di strenna un libro che parla di regate: probabilmente scovato presso una bancarella nel mucchio dei mai venduti. Racconta di mani doloranti per la fatica, di piedi sempre bagnati gonfiati dal freddo, di fatiche che restano nella mente. Scafi sotto sforzo che si rompono, delusioni abbandoni riprese e nuove fatiche, passaggi sull’equatore tra onde grigie senza fascino: un modo di amare il mare che biasimo, m’è difficile accettare tanta caparbietà sprecata per raggiungere una linea d’arrivo al di là dell’oceano. Una cosa però ho condiviso:

 

“…mi trasferisco a La Rochelle e comincio gli allenamenti. Entrare in sintonia con una nuova barca è come iniziare a conoscere una persona. Si deve imparare a capirla, ad interpretare i suoi comportamenti, i suoi silenzi. Esco ogni giorno con lei l’ascolto, le parlo, cerco la sua amicizia….”

 

Quando guardavo l’invaso e le sagome nella penombra della stanza, socchiudendo gli occhi per aumentare la profondità dell’immagine, riuscivo a seguire la forma dello scafo che sarebbe nato: vuoti e pieni , luci ed ombre erano già la barca. Terminato il lavoro di rifilatura sono passato ad irrigidire ulteriormente la struttura dell’invaso: fissando lo specchio di poppa alla spagliera della scala e il dritto di prua ad una sorta di croce avvitata sui gambi dell’invaso. Senza queste attenzioni le spinte prodotte dal fasciame in costruzione, avrebbero disassato le appendici e storto la chiglia.

Per pensare il fasciame di una barca si deve immaginare qualcosa che assomigli ad una scorza di arancio sbucciato longitudinalmente oppure alla parte verde di una fetta di anguria: larghe al centro e assottigliate nelle appendici; così per ricostruire la mia anguria prima ho ritagliato i disegni eseguiti all’inizio in scala naturale e poi li ho applicati  sulle sagome come indica il progetto:  “fasciame cucito di white-spruce (pino o piella a seconda di come si vuol chiamare) omogeneo scelto di mm8 di spessore finito, 12 corsi per parte mm16 di sovrapposizione. Tutto lo smusso sul corso inferiore……”

Servendomi delle suddivisioni già fatte ho fermato con le puntine il primo corso disegnato e mi sono accorgo che al centro deve essere un poco più largo ed a poppa resta quasi della stessa larghezza, con il nastro adesivo ed una striscia di carta ho compensato la differenza e ho tagliato verso prua dove deve essere più sottile. Allo stesso modo ho proseguito con i successivi disegni aggiungendo e togliendo e per riprodurre l’incurvatura ho usato assicelle che nel vuoto sorreggono la carta e ho rimandato a dopo le risposte a tutte le domande sugli errori fatti. Alla fine risulta una serie di disegni migliori e più convincenti dei precedenti ma non ho ancora la certezza di avere la soluzione giusta tra le mani. Ad assestare il colpo di grazia alle mie convinzioni di autodidatta è l’impossibilità di trovare il pino senza nodi o qualsiasi altro legno in vendita da cui ricavare semplicemente i 24 pezzi.

Raccolgo tutte le carte e risalgo il lago di Como verso la soluzione. Cernobbio, Argegno, Ossuccio sfilano via con le case le piazzette e loro campanili e i tetti: disegnati sopra l’azzurro dell’acqua più in basso. Villa Carlotta, il promontorio di Bellagio e il vecchio battello di linea diretto a Tremezzo  che raschia l’azzurro con onde di metallo: quanto tempo che non tornavo quassù !

Sono un elettronico votato all’elettrotecnica di cantiere e come tale ho lavorato a costruire nuovi impianti in fabbriche e grandi magazzini: Milano, Roma, La Sardegna, Torino ed un’infinità di altri posti per poi tornare al mare durante le ferie e nei fine settimana. Una volta però è successo che: per far andare meglio un rapporto di lavoro mio e dalla ditta che m’aveva sul libro paga, il nuovo cantiere si chiamasse “RIVA ACQUARAMA” si proprio come quel motoscafo di B.B. e di R.Vadim dai cuscini turchese e dallo scafo a vernice: icona di un’epoca. Così ho conosciuto Giorgio ed i suoi familiari, smontato ogni pezzo di metallo, salvate le viti, messo in scatoloni il timone a forma di volante color avorio, liberato dall’ossido i caratteristici comandi dell’invertitore e del gas: montati sotto al volante, simili alle leve del cambio di una macchina americana. Poi motori, cruscotto, tendalini, gomme, guide; tutti catalogati, fatti cromare, revisionare: per tornare nuovi. Giorgio e gli altri nel frattempo, sostituivano il fondo dello scafo con nuovi compensati, portavano a legno ogni pezzo e con cura da filatelici salvavano i pezzi per poi rimontarli lasciando emergere dal lavoro l’eleganza che il tempo lascia sulle belle cose.

Giorno dopo giorno sono diventato amico di questi “Laghè” che costruiscono anche barche nuove dalle forme classiche e meravigliosi dinghy.

Dalla via principale che sale tortuosa sotto il picco del monte di Termezzo si accede al loro mondo passando per un acciottolato seminascosto da contrafforti di pietra che sorreggono gli orti vicini e un grosso cancello in ferro battuto. Uno slargo, tappezzato di ciuffi d’erba, resti di carpenteria e scafi dal destino incerto separa il cancello da due variopinte costruzioni fatte di assi, hanno dimensioni modeste, con grandi porte in legno e costituiscono “i capannoni della falegnameria” ; dove il padre di Giorgio ha lavorato da piccolo con suo padre e poi ha proseguito mantenedo la famiglia, finchè i figli, diventati grandi e terminate le scuole, si sono uniti  a lui nell’attività.

Le voci e i rumori delle macchine provenienti dai capannoni animano il piazzale deserto e manifestano la loro presenza, varcando il portoncino appaiono le cose di sempre: capriate polverose invase da ferramenta d’alberi, boma, cavalletti. Appoggiate alle pareti: mezze sagome, in apparente confusione, assieme a tavole di fasciame, scarti e listelli squadrati. Il fondo in terra battuta bordeggia la base di cemento della pialla e termina contro lo scalino della piccola porta a vetri  aperta sull’ufficio magazzino dove c’è il telefono che ha annunciato il mio imminente arrivo.

Non ci siamo ancora visti: lo scafo di un “catboat” in costruzione ci separa. Giorgio mette la tesa fuori dai bagli, oltre la carena lucida di vernice e con voce forte, da montanaro, mi indica la scaletta per salire a bordo. Lo scafo in mogano è costruito in modo classico con le ordinate in lamellare di acacia, i correnti, le serrette,  i madrieri e il paramezzale sovrastato dalla poderosa cassa della deriva a mezzaluna in metallo; la coperta e la cabina sono appena accennate nella forma dei bagli. Mi lascia ammirare compiaciuto: il nostro rapporto, nato in quei tempi, non si è appannato con il passare delle stagioni.

Ho cercato di anticipare cosa stavo facendo:

-Che fai… mi voi fare concorrenza.. vieni su, vediamo, ciao ho da fare…a presto-. Così con il suo linguaggio scarno, tipico della gente di quei posti, che riuscirei a ricordare a distanza di secoli acconsentiva di mettersi a mia disposizione per una richiesta inusuale: quasi un fatto di famiglia. Non so ancora quale disponibilità abbia in mente di offrirmi quando repentinamente interrompe il lavoro e mi porta dietro i capannoni dove sotto alcune lamiere riposano a stagionare grosse tavole di mogano spesse anche 5cm con i resti della corteccia attaccati ai bordi.

Sono bastati pochi attimi per definire il da farsi, la spesa e l’idea di abbandonare il pino rivolgendomi al più nobile mogano: -prendi li… questa, si…. alziamola e andiamo dentro-.

Per realizzare le tavole usiamo i modelli di compensato che utilizzano nei loro dinghy e con un certo compiacimento ho modo di vedere la forte somiglianza con i miei disegni ( in altra sede li ho poi sovrapposti e ho visto quanto è stato buono il lavoro di taglia cuci ed incolla: ancora desso conservo la bella copia di quei disegni).

Dopo aver reso piano un lato, si suddivide la grossa tavola in parti sufficientemente larghe da contente il disegno ricurvo (in realtà occorrono tre grosse tavole) segati con la circolare, i 12 pezzi passano nella pialla a spessore 25mm di finito. A questo punto trasportiamo il disegno dei modelli di compensato e con una sega a nastro pronipote della bindella di Gianni tagliamo i corsi del fasciame. Alla fine, ancora con la grossa lama della circolare dividiamo a metà i 12 pezzi ricurvi ottenendo due coppie simmetriche dello stesso corso di fasciame: uno per bordo. Portati a spessore giusto di 8mm si legano con quella pellicola simile alla plastica per alimenti assieme alle traverse del portapacchi.

E’ quasi notte quando lascio il lago e mentre viaggio ricostruisco gli attimi della giornata, traendo la più ovvia delle considerazioni: senza l’aiuto di Giorgio la costruzione sarebbe rimasta impantanata a lungo.

 

ACQUA E LEGNO

 

Adesso che le tavole sono state tagliate e sagomate vanno piegate sulle forme dell’invaso. La cascina di Gianni , oltre al corpo centrale con le case ed il portico comprende anche una stalla grande ed una piccola, vecchia come le case. Queste due stalle sono messe ortogonalmente alla parte centrale, una sulla destra e l’altra sulla sinistra e costeggiano un piccolo corso d’acqua sorgiva che quà nel Cremasco chiamano Roggia. L’acqua è limpida e bassa, il fondo ghiaioso ed è contornata da sponde erbose ombreggiate da grosse piante  di rubinia. Si accede al livello dell’acqua grazie a scalini ricavati con la vanga sulla

sponda, a ridosso di un piccolo ponte. In quest’acqua ho immerso a più riprese le tavole di mogano per renderle duttili alla piega. L’operazione di inumidire il legno favorendone la piegatura è una cosa che tutti conoscono ma soltanto pochi hanno visto eseguire, così tra scetticismo e curiosità Gianni e Giulio hanno atteso i primi risultati.

Ormai le giornate sono corte davvero, il buio arriva con grande anticipo su le ore destinate al procedere dei lavori in cascina; l’anticipazione della cena si tramuta, alla fine di ogni attività, in connubio di incontri conviviali e lente prosecuzioni nella costruzione della barca. In cucina di Gianni si rovescia la polenta che Giuliano, altro abituè di queste parti, ha governato nel paiolo di rame, con un

piccolo remo di bratto. Il vapore e l’odore dei tordi a cuocere sulla stufa a legna dal piano di ghisa dove era conficcato il paiolo della polenta, riempiono la stanza in penombra. Alla tavola: viva per i nostri maneggi e per la luce che la sovrasta, riprendono  i racconti ed i commenti sui fatti della giornata:

--e l’albero dovè... al centro della barca?—un particolare che non avevo ancora definito con Gianni. E’ per colpa dei primi disegni fatti alle scuole elementari che nasce l’idea comune di sistemare gli alberi delle vele al centro delle barche.

--no! È ritto sulla prua, a circa 30cm dopo l’inizio—

--E “figlio!!” (tipica esclamazione di Gianni) come fa ad andare, mettilo più al centro—

--Potrei ma occorre cambiare la forma della vela e poi mi piace così, come ha pensato quello che l’ha disegnata—

--ma l’aria che spinge......—

--L’aria non spinge soltanto, a volte tira......—.  Ho il pallino della storia in mano e non lo lascio scappare: altrimenti ci si perde in chissà quali varianti sulle spinte del vento.

E’ l’occasione giusta per finire l’annoso discorso su come fanno a muoversi le barche a vela:

--senz'altro vi sara’ capitato di stendere il braccio fuori dal finestrino dell’automobile mentre va’...-- Magari non di recente, ma sicuramente qualche volta.......—aggiungo vista l’espressione di disagio per ricordare e le fronti aggrottate.

—....e quando è disteso, con il palmo della mano rivolto verso il basso, ruotare la mano ed avvertire una spinta che vuole sollevarla...— accompagno le parole distendendo il braccio e ruotando lentamente la mano, fremandomi ad un angolo della rotazione dove in genere si percepisce la spinta, prima che tutto si trasformi in resistenza all’avanzamento.

—La spinta è data dalla diversa densità dell’aria che scorre sul dorso e sul palmo della mano. Sul dorso le particelle d’aria si addensano formando un percorso curvilineo; all’interno di questo percorso: le particelle più vicine alla mano si trovano costrette a rarefarsi per passare, mentre sul palmo l’aria scorre senza intoppi....-- Così dicendo disegno la sagoma della mano a prua di una piccola barca.-

La rarefazione delle particelle ha prodotto una riduzione di pressione sulla parte superiore della mano che viene sospinta dall’aria che passa sul palmo—. Giuliano, come al solito preferisce ascoltare che perdersi i lunghi commenti e precisa:

—si sposta ma non va avanti ! ---

--E’ qui che entra in gioco la forma dello scafo,la deriva , il timone...—ed aggiungo i particolari al disegno--...l’acqua scorrendo attorno alla deriva della barca spostata dalla spinta sulla vela...---

---“Figlio” ma la deriva non serve per contrappeso tra quello che è fuori dall’acqua e quello che è dentro?—

E’ Gianni che riemerge dalle varianti sulla forma della mano, le ali i profili e dal fatto che a far andare l’aereo è l’elica che tira— --...si anche.... però manovrando il timone la deriva viene a trovarsi nella stessa condizione che abbiamo detto per la mano ed inizia a esercitare una spinta che è più corretto chiamare portanza...--- ultimo pezzo aggiunto ,il timone ---.... l’arte del navigare stà nel manovrare la barca, spostando la vela con le scotte e indirizzando lo

scafo-deriva con il timone, finche le due spinte agiscano di comune accordo—

Si torna a tordi , al vino buono, al caffè, alla grappa; mi viene da pensare che esistono anche, il baricentro, il parallelogramma delle forze, il fatto che la bisettrice della barca taglia la retta della direzione di navigazione per un angolo pari all’angolo di portanza della deriva; ma queste sono cose che stanno scritte sui libri, per la nostra serata è sufficiente quello che abbiamo detto.

Altre volte in modo più repentino e discreto passo dalla Roggia e senza fermarmi vado nella casa dov’è la barca; ed è come entrare in un calendoscopio di fatti già vissuti: di esperienze trasmesse da uomini antichi rinate nei legni che lentamente e con cautela piego sulle sagome dello scafo. Cos’ha di diverso il mio procedere dal lavoro dei calafati della nave di Cheope o dai greci nelle navi raccontate da

Omero? Non sarà certo l’uso del potente fon elettrico in vece delle torce o delle lanterne ad olio a rendere queste pieghe diverse. Vivo una trasfigurazione senza tempo, la manualità si riempie di gesti arcaici, rituali propiziatori di cui è piena la storia del mondo. I legni sono ancora gli stessi :L’olmo e la quercia. “fasciame cucito.....”  I greci e i romani costruivano i gli scafi assiemando le tavole del fasciame in modo da forarle entrambi e successivamente le cucivano con corde composte da trefoli che successivamente bloccavano piantando cavicchi di tiglio nei fori. Probabilmente anche loro iniziavano la costruzione con lo scafo rovesciato ed una volta terminata questa fase lo voltavano e legavano i madrierei alle tavole ed alla chiglia. Sorprendenti anche i numeri: nella stragrande

maggioranza dei casi le tavole erano 12 per parte, la distanza dei centri di ogni foro era di 9cm (10cm sul dinghy).

12 erano anche le tavole delle navi Vichinghe il fasciame decisamente sovrapposto come quello del dighy, la parte immersa era legata e stagnata con i cavicchi, rendendo più elastico lo scafo sotto gli sforzi d’un mare inclemente come quello nordico (onde anche di 15 metri , correnti contrarie superiori ad 8 nodi, raffiche di vento di oltre 100km/h per scafi lunghi più di 15mt larghi 5 6mt dai corsi di fasciame interi che salivano al cielo nella caratteristica prua sovrastata dalla testa di drago).

La chiodatura in rame del dinghy prende uso attorno al XVIII secolo ed è costituita da chiodi di sezione generalmente quadra che vengono infissi tra le due tavole sovrapposte dopo aver praticato un foro di misura. Successivamente, servendosi di un bulino forato al centro (capace di far passare il chiodo sporgente) con impronta conica, si spingeva una rondella di rame sul chiodo tenuto fermo da una

massa capace di assorbire il contraccolpo del martello; la parte del chiodo sporgente veniva tagliata e ribattuta sopra la rondella sino a formare una sorta di rivetto.

Giorgio m’ha fornito di uno strano attrezzo che ho duplicato più volte: è formato da due assicelle di legno elastico più lunghe della larghezza di una tavola, separate da un doppio spessore di legno ricavato dagli scarti della stessa ed avvitati tutti assieme. Con questi attrezzi è possibile tenere unite le tavole del fasciame semplicemente infilandole tra di esse; a prua ed a poppa le tavole vengono avvitate con viti di ottone sul dritto e sullo specchio dopo essere state piallate e avviate con un piccolo gradino. Così prese queste

tavole ricurve iniziavo ad appoggiarle al centro, le fermavo con le mollette di Giorgio e proseguivo  piegandole e assestandole poco alla volta; fino a che le estremità ricurve, come una mezzaluna, sormontavano la tavola precedente. Occorrevano anche parecchi morsetti per essere sicuri che non si muovessero quando praticavo i fori con il trapano e passavo al fissaggio con i chiodi di rame: due fori vicini

ed uno saltato per fissare in seguito l’ordinata. Per tutto l’inverno, a periodi alterni, non sempre produttivi: ho bagnato, scaldato, piegato ed inchiodato le tavole e all’arrivo della

primavera il guscio era pronto per essere voltato.

 

 

ODORI E RICORDI

 

A volte, nei i sentieri sterrati attraverso i campi, si sente l’odore del mare: così imprevisto e forte da supporre che dietro l’ultima fila di alberi, oltre il terrapieno, debba apparire la distesa azzurra senza fine.

Completando il guscio: termina anche la permanenza alla cascina, così una mattina d’ Aprile poco dopo l’alba sono tornato da Gianni per trasportare il Dinghy nel garage vicino alla casa dove abito, ormai provvisto di porte.

L’aria è pulita ed i contorni delle cose tagliano il cielo come cocci di vetro. Il sole sopra la bruma riflette di sbieco sull’erba e sulla terra umida; un trattore già al lavoro rivolta la terra, sopra a lui un nugolo di uccelli lo segue.

L’odore dei fossi raschiati, il trattore sperduto nei campi ed il confine azzurro dei monti si tramutano nella mente in immagini di mare.

Il guscio privo di ossatura interna, si contrae e si distende ad ogni scossone dell’auto. I chiodi di rame infissi nei fori sulle tavole del fasciame non sono ancora ribattuti ed io guido tra le impervità della strada con l’orecchio e l’animo tesi in ascolto: temendo che per quei sussulti una tavola possa allentarsi e spostarsi. Il viaggio si conclude senza

disastri e con l’aiuto di Eugenio deposito il dinghy sul pavimento del garage.

Della manciata di chiodi avuti in regalo da Giorgio restano alcuni esemplari solitari sigillati nel barattolo di confetture:

è merce questa che non si trova nei negozi qua attorno, occorre passare l’appennino, scendere fino al mare.

Così in quell’ Aprile sono partito , ho scavallato i monti e dopo boschi di castagni e declivi erbosi sono arrivato a Lavagna per ricongiungere i luoghi ai ricordi di un’altro cantiere.

 

Cymba : un motosailer dall’alberatura generosa nato a  Varazze nella falegnameria degli Ottonello  parecchi anni prima. Adatto alla pesca a  traino con la canna, uno scafo blu avvitato su grosse costole di rovere e mogano che segna sempre, anche dopo infinite mani di stucco. Rimessato in un capannone all’Argentario, dopo aver scorrazzato in tutto il mediterraneo, per limiti di età dell’armatore che a ottant’ anni si era ritirato vicino alla figlia nei dintorni di San Remo. Gagliardamente ci ha raggiunti dopo un viaggio in auto e consegnata la barca, le attrezzature, le canne ed i mulinelli (che ancora conservo assieme ad una collezione di carte del mediterraneo, incollate su pergamena, su cui sono riportati a matita gli appunti delle navigazioni)  si è ritirato in una casetta a perpendicolo sulla costa, di fronte allo scoglio dell’Argentarola: sarebbe ripartito, in auto, per San Remo la mattina dopo.

Noi a bordo del Cymba, nei giorni successivi, facevamo rotta su Viareggio. Si terminava il trasferimento per Santo Stefano ormeggiati nel porto di Lavagna.




20/03/2009 Franco Favilla
francofavilla@libero.it

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