Finalmente avevo il Piviere

di Pino

 

Finalmente avevo il Piviere, bello, rosso, con gli interni rivestiti in sughero, il nome non c’era scritto, ma dalle mogli dei due ex proprietari da cui l’avevo acquistato ho saputo che il nome era Nata C, non so come andava scritto, forse con l’apostrofo, perché il significato era N’ata cavolata’. Adesso c’era da capire come funziona una barca a vela, già, perché il desiderio di vela c’era, ma mancava completamente la cognizione del funzionamento.

Era la primavera del 1983, io mi ero separato da circa un anno e mezzo, e passavamo tutti i fine settimana in barca con i tre figli, Simone dodici anni, Mariacristina nove e Federico quattro, dormivamo a Fiumara, e mangiavamo apparecchiando il tavolino che era ripiegato sul supporto dell’albero, con fogli di scottex mangiando le fettine panate (cotolette alla milanese) che mi preparava mia madre. Gli stessi figli avevano voluto chiamare la barca L’Armata Brancaleone, rendeva bene l’idea Il giorno facevamo avanti e indietro a vela con la sola randa tra il Ponte della Scafa e la foce, senza mai uscire in mare.

Dopo un po’ era arrivato il momento di tentare l’uscita in mare, equipaggio: io, mia sorella Carla e due nipoti, Stefano e Andrea, nessuno dei quattro sapeva che il genoa doveva avere due scotte, noi pensavamo che si passasse da una lato all’altro nelle virate.

Dimenticavo di parlare del motore, un Whitehead 5 cavalli che aveva un problema, si spegneva quando meno te lo aspettavi. Veniamo alla prima uscita, che poi era anche la prima uscita in assoluto a vela, o meglio, al tentativo… partenza dalla banchina di Chiaraluce, tutto bene per una decina di minuti, dopo l’isola si vede il mare, manca poco, paf… si spegne il motore, lascio il timone a mia sorella e armeggio al motore rivolto necessariamente verso poppa, mi accorgo troppo tardi che Carla non ha idea che spingendo la barra a destra la barca va a sinistra e viceversa, vedo con terrore che stiamo puntando verso gli scogli che stanno sulla sponda destra del Tevere prima della foce, è troppo tardi per fare qualcosa, senza dircelo sia io che Carla saltiamo giù dalla barca sugli scogli per evitare l’impatto, è stato più facile del previsto, ma ero preoccupato perché non sapevo come era fatto un Piviere sotto la linea di galleggiamento né cosa ci fosse sotto l’acqua.

Mi accorgo però che non eravamo stati noi, eravamo fermi perché l’albero era appoggiato ad un braccio di una bilancia, una delle tante che stanno alla foce di un fiume.

Mentre pensavamo al da farsi, mio nipote rimette in moto e ingrana la retromarcia, io faccio in tempo a saltare a bordo rischiando due costole sul corrimano di legno di dritta, Carla meno pronta rimane con i piedi sugli scogli e le mani sulla barca, impossibilita a cambiare posizione, con il risultato di finire in acqua, appesa alla barca, urlando come una pazza sui problemi di infezione da leptospirosi ecc., ma più urlava più ci era impossibile tirarla su, si divincolava come un’anguilla e non collaborava, il tutto con la barca che comunque camminava, alla fine l’operazione riesce, è in barca. Tornando all’ormeggio Carla dice che se deve andare così, la prossima volta viene direttamente in bikini, comunque l’esperienza le è piaciuta, dopo una vacanza all’arcipelago Toscano con me e il fidanzato e una in Corsica con una barca affittata, il suo lui ha preso la Patente Nautica e adesso, sposati e con due figli, vanno ancora in barca, ed anche il matrimonio ha retto in barba alle burrasche… come il Piviere.

 

26 novembre 2007